La grande malattia del mondo di oggi è la mancanza dell’io, l’oscuramento di cosa è l’uomo. È proprio questa crisi d’identità che è alla base del crollo delle evidenze, della violenza nei rapporti, della vita non vissuta, del senso di orfanità sperimentato da tanti.
Qual è il metodo di Dio per venire incontro a questa circostanza? Cosa c’entra Abramo, quell’uomo sconosciuto della Mesopotamia?
«Tutta la storia di tutto il mondo diventa chiara in un filone che parte da un uomo della Mesopotamia, Abramo. Dio lo ha scelto per farsi conoscere dagli uomini e per salvare gli uomini che navigavano in una dimenticanza totale o in una affermazione della totalità secondo una propria misura» (Luigi Giussani).
Con Abramo avviene la “nascita” dell’io. La concezione dell’io come rapporto con un Tu che mi chiama nella storia, la percezione dunque della vita come vocazione e del lavoro come compito assegnato da un Altro, la categoria di storia lineare nel rapporto con Dio, sono dimensioni che entrano in gioco per prima volta con la chiamata di Abramo.
San Paolo identifica in Cristo il vero discendente di Abramo (Gal 3,16). Infatti, Abramo, vedendo il giorno di Cristo, si rallegrò (Gv 8,56) perché vedeva in Lui il compimento di quello che era incominciato nella chiamata che Dio gli aveva rivolto.
L’io di Gesù, il Figlio, era l’immagine compiuta, il destino di ciò che era incominciato in Abramo. I discepoli sono stati attratti dalla Sua eccezionalità e, seguendolo, hanno cominciato a fare esperienza del compimento del proprio io.